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Le interviste

“Disabilità non significa inabilità. Significa semplicemente adattabilità.”

Chris Bradford —che ha coniato questo aforisma— è un attore statunitense. E se c’è qualcosa che accomuna l’attitudine della maggior parte delle persone disabili che abbiamo incontrato in Vietnam è proprio questo: sapersi adattare. Il Vietnam è un paese giovane ed economicamente in crescita. Ma è anche uno dei paesi al mondo con il più alto tasso di disabili. Su circa 92 milioni di abitanti, i disabili secondo un censimento del governo vietnamita sono 7 milioni, ma sarebbero addirittura il doppio secondo una stima del 2010 dell’Organizzazione mondiale della sanità. Il calcolo è difficile, sia perché circa tre quarti dei disabili vivono in zone rurali difficilmente accessibili, sia perché non esiste una definizione univoca di disabilità.

Contro le barriere architettoniche (e sociali)

“Ho due lauree e un master, ma sul lavoro ho subito tanto rifiuti che pensavo al suicidio. E’ stato allora che ho capito che dovevo aiutare i disabili meno fortunati”
(Yen Vo — fondatrice di Drd Vietnam)

L’impossibilità di muoversi autonomamente: a Drd Vietnam lo ribadiscono più volte che sia questo il principale, e più evidente, limite all’inclusione dei disabili in Vietnam. Perché il livello di istruzione tra i disabili è più basso? Perché le scuole sono inaccessibili. Perché per un disabile è più difficile trovare lavoro? Perché la stragrande maggioranza degli uffici è inaccessibile. Perché non si vedono disabili in giro? Perché le strade sono inaccessibili. Drd, sigla che sta per centro di ricerca sulla disabilità e per lo sviluppo delle capacità, è un'organizzazione nata dieci anni fa a Ho Chi Minh City.

Quando li contattiamo per un’intervista ci propongono subito di provare uno dei loro motorini a tre ruote. Ne hanno tredici e possono essere noleggiati gratuitamente, con o senza autista, dai disabili che hanno bisogno di spostarsi all’interno della città. L’iniziativa è finanziata da una no profit coreana e dà lavoro ad alcuni disabili che lavorano appunto come autisti. Accessibilità, ma non solo. Come ci racconta Yen Vo, la fondatrice, Drd finanzia anche borse di studio per studenti disabili (grazie ad una fondazione giapponese), organizza tirocini e promuove campagne di informazione sulla rimozione delle barriere architettoniche e sociali. L’incontro con Federico è l’occasione per scambiarsi opinioni e suggerimenti sugli ausili. Vo e i suoi colleghi si interessano immediatamente al ruotino elettrico di Federico e si fanno spiegare come funziona. Certo, il problema in Vietnam è che persino la sedia a rotelle è difficile da ottenere, e di solito si tratta di sedie da circa 50 dollari donate da ong straniere. Vo ha due lauree, ma sul lavoro ha subito tanti rifiuti da spingerla alla depressione: “A quel punto però ho pensato: se io che ho studiato sono discriminata, come vivono i disabili che non hanno potuto nemmeno studiare?”

Yen Vo ha fondato Drd, il centro di ricerca sulla disabilità e per lo sviluppo delle capacità a Ho Chi Minh City nel 2005.

Dopo un master negli Stati Uniti, che le ha dato la possibilità di studiare i servizi per i disabili nel paese e di formarsi in counseling e in advocacy, Vo è tornata in Vietnam nel 2005 e ha deciso di fondare Drd. A Drd conosciamo anche Lieu Hieu che fa parte dell’organizzazione fin dall’inizio. Un incontro, racconta, che le ha cambiato la vita. Hieu non è nata disabile: è paralizzata a causa di un incidente in motorino. Aveva 17 anni quando è successo e all’inizio non voleva più andare scuola né uscire di casa. Anche grazie all’incontro con Vo, ha poi superato queste difficoltà e la vergogna che provava per la sua disabilità. Rathlan, una studentessa di 20 anni, ci dà invece una dimostrazione pratica di come funzionino le moto a tre ruote. Ci racconta poi che non solo lei è disabile, ma anche i suoi tre fratelli e suo padre. A cause delle sue limitazioni fisiche ha iniziato la scuola con due anni di ritardo, ma ora è decisa a lottare perché le cose cambino: “La società — dice — si aspetta che se è uno è disabile voglia solo stare chiuso in casa, invece non è così: dovrebbero lasciar decidere a noi che cosa sia meglio per noi”

La volontà di vivere. Fino in fondo

“Molti disabili si suicidano, perdono le speranze. Mio fratello ed io, pur con fatica, siamo riusciti a trovare un lavoro e ad essere indipendenti. Avevamo il dovere di condividere la nostra esperienza con altri”
(Nguyen Thi Van — fondatrice di Nghi Luc Song)

Incontriamo Nguyen Thi Van in un appartamento a 40 minuti dal centro Hanoi Abbiamo conosciuto Van grazie a Facebook e ad un’amica in comune. Quando arriviamo, Van è in compagnia di alcuni amici: stanno festeggiando l’arrivo di un’amica che è venuta a trovarli da Ho Chi Minh City e ci offrono i dolci che hanno preparato.

Nella sede dell'associazione "La volontà di vivere" ad Hanoi è esposta una foto di Thi Van insieme al fratello.

Van è seduta su un materassino appoggiato per terra, indaffarata tra il computer e il telefono. Sia lei che suo fratello maggiore Hung sono cresciuti in un villaggio a 300 chilometri da Hanoi. Sono nati con la stessa disabilità, congenita. Hung aveva 31 anni quando è morto. Lei oggi ne ha 28 e i medici le hanno pronosticato non più di 4 anni di vita. Van ci parla di suo fratello e ci racconta che è insieme a lui che ha deciso di fondare l’associazione “Nghi Luc Song”, che tradotto significa “La volontà di vivere” Quando aveva vent’anni, Van si è trasferita ad Hanoi per cercare lavoro: “Un giorno, mentre da casa mandavo curriculum in cerca di un lavoro, ho letto un articolo di un ragazzo vietnamita che studiava negli Stati Uniti e che confrontava la situazione dei disabili nel suo paese di origine con quella dei disabili americani. Mi ha colpito perché aveva davvero capito cosa vuol dire essere disabili in Vietnam” Van gli scrisse una mail, raccontandogli la sua storia e spiegandogli che cercava lavoro come grafica, ma che aveva ricevuto sempre e solo risposte negative. Lui le rispose, dicendole di portare il suo curriculum ad un’azienda di Hanoi: la sua. Così Van ha iniziato a lavorare come photo-editor e nel 2008 ha deciso di spostare la sede di “Nghi Luc Song” dal villaggio dove era nata alla capitale. Van ci mostra i suoi tatuaggi: il logo dell’associazione sul dorso della mano e l’albero della vita sulla spalla. Chiede poi a Federico informazioni sul suo viaggio, come si è trovato e che cosa pensa del paese. E gli spiega: “Per me, per chi è deforme, è più probabile essere discriminati: le persone mi fissano, hanno paura, imbarazzo. Pensano che un disabile dovrebbe stare a casa. Quando vado dal parrucchiere, faccio shopping o mi provo un bel vestito le persone spesso mi giudicano: ritengono che il mio comportamento sia inappropriato, che non dovrei truccarmi né vestirmi in modo appariscente”

Van ha promosso di recente una campagna: “Io sono bella. Anche tu”, organizzando tra l’altro il novembre scorso una sfilata con modelle disabili a Casa Italia, ad Hanoi. Si sistema il rossetto e iniziamo l’intervista. Van ci conduce poi in un appartamento qualche piano più sotto, nello stesso palazzo. Qui incontriamo un gruppo di una decina di ragazzi disabili. Stanno preparando la cena, e nella stanza ci sono anche alcuni computer, con cui possono esercitarci ed imparare ad usare i programmi di grafica e di programmazione. Grazie al supporto di alcune fondazioni straniere, l’associazione di Van organizza infatti corsi di informatica e di grafica per giovani disabili provenienti da tutto il paese, incoraggiandoli a vivere da soli e assistendoli nella ricerca di un lavoro. In questi anni, sono circa 700 i giovani che hanno partecipato ai training dell’associazione.

La sfida dell’istruzione universitaria

“Gli studenti disabili spesso non ci dicono di esserlo: hanno paura di essere discriminati, di non trovare un lavoro, o addirittura di perdere la borsa di studio a causa della loro disabilità”
(Heater Atkinson — consulente psicologica degli studenti del RMIT di Hanoi)

Il tasso di analfabetismo tra i disabili in Vietnam è il quadruplo rispetto alla media nazionale. E solo un disabile su mille completa gli studi universitari. Ad Hanoi e ad Ho Chi Minh City abbiamo visitato le due sedi della Rmit, l’università australiana di business e di ingegneria, che tra le altre cose offre alcune borse di studio a studenti svantaggiati, tra cui appunto rientrano anche gli studenti disabili.

Il campus di Ho Chi Minh City si trova a circa quaranta minuti di taxi dal centro. È qui che incontriamo Carol Witney: è inglese, ma vive in Vietnam da sette anni. Si occupa di coordinare i servizi per gli studenti disabili (ce ne sono 3, una ragazza cieca e due in sedia a rotelle) e di rendere accessibili tutte le strutture del campus. “L’anno scorso — spiega Carol — abbiamo ricevuto 50 richieste di borse di studio, di cui 15 da studenti in sedia a rotelle” Numeri in realtà piuttosto bassi: “Il servizio — precisa — è molto nuovo. Inoltre questo servizio c’è solo da due anni. Questo è un inizio, ma ci vuole tempo” Molto infatti deve ancora cambiare nella mentalità, non solo delle istituzioni, ma anche dei disabili stessi. Heater Atkinson, che ad Hanoi lavora come consulente psicologica per gli studenti, ci racconta infatti che spesso di molti studenti non sanno nemmeno che sono disabili: “Abbiamo avuto studenti – racconta — che non hanno passato un test o un esame a causa di un problema oggettivo alla vista o all’udito. Di solito sono gli insegnanti ad accorgersene: gli studenti non vogliono rivelarlo perché temono di essere discriminati”

Raggiungere i traguardi. E superarli

“In tanti mi hanno chiesto perché assumessi disabili, visto che avere un’impresa significa fare profitto. Ma i nostri artigiani lavorano benissimo: noi sopravviviamo grazie al nostro lavoro, non con la carità”
(Le Nguyen Binh — fondatore di Reaching Out)

Il primo posto che visitiamo a Hoi An, meta turistica piuttosto frequentata lungo la costa centrale del paese, è il laboratorio di Reaching Out ed è stata Carol Witney, del Rmit, a parlarci di Le Nguyen Binh, il fondatore. Reaching Out è un’impresa equo-solidale e per accedere al laboratorio, che si trova in una delle vie più frequentate del centro, bisogna prima attraversare il negozio, dove si vendono prodotti di artigianato (dai tessuti ricamati, alle ceramiche e ai gioielli). Insomma prima si vede il prodotto e poi chi lo fa. L’idea di fondo è che il turista compri il prodotto perché è bello e non solo per fare una buona azione. Nessun logo indica chi siano gli artigiani. E non è un caso: nel laboratorio, aperto al pubblico, lavorano 60 persone. Quasi tutti disabili. Binh non c’è, ma ci telefona mentre siamo al laboratorio chiedendoci di raggiungerlo a casa sua. Abita con la moglie i due figli in un villaggio sul mare, a qualche chilometro da Hoi An. Binh è un uomo curioso e pacato, che non risparmia sorrisi e dà continuamente mostra di ascoltare con attenzione: “Essere integrati — dice — per me significa lavorare e vivere indipendenti” Ha iniziato lavorando come programmatore. E ha capito subito che lavorare nell’informatica era un’ottima opportunità per i disabili. Così nel 1996, insieme a sua moglie, ha avviato alcuni corsi di inglese e di informatica per disabili.

Binh racconta la sua soddisfazione personale, nel riuscire a guadagnarsi il primo stipendio. Nel 2000 ha fondato Reaching Out per poter dare un lavoro anche disabili che avessero un livello di istruzione più basso. All’inizio gli artigiani erano 10, oggi sono 60, di cui 50 disabili: realizzano ricami, decorazioni in ceramica, tessuti e gioielli artigianali. Ogni lavoratore sceglie la sua specializzazione, in base alla sua inclinazione. E dopo un tirocinio che dura dai tre ai sei mesi può decidere se restare o cercare lavoro altrove. Nel 2013 hanno aperto anche una sala da tè, sempre nel centro storico di Hoi An. La scritta che accoglie i visitatori all’ingresso è “Enjoy the silence”: i camerieri sono sordomuti.

Oltre la guerra

“Il passato è passato. Io preferisco pensare al futuro e aiutare altri disabili a farlo”
(Nguyen Thang Ninh — Associazione vittime dell’agente arancio)

Due terzi della popolazione vietnamita sono nati dopo la caduta di Saigon e la riunificazione del paese nel 1975. Per loro la guerra è un passato lontano. Eppure il Vietnam ne paga ancora oggi il prezzo: l’esposizione all’agente arancio, nome in codice del defoliante chimico usato dall’esercito Usa durante la guerra, ha causato tra le altre cose mutazioni nel dna delle persone esposte, mutazioni che causano ancora oggi la nascita di bambini disabili. La Croce Rossa vietnamita stima che le vittime degli agenti chimici siano un milione, tra cui 150mila bambini. Nel 2004 l’Associazione vietnamita delle vittime dell’agente arancio ha citato in giudizio diverse aziende statunitensi (tra cui Monsanto e Dow Chemical) per aver ideato, prodotto e poi negato i danni causati dal defoliante. Il 10 marzo 2005 la richiesta dell’associazione è stata respinta con la motivazione che, all’epoca del suo utilizzo, l’agente arancio non era considerato una sostanza velenosa e il suo uso come erbicida non era proibito.

Al museo dei residuati bellici di Ho Chi Minh City, un’intera sezione è dedicata agli effetti degli agenti chimici sulla popolazione e sull’ambiente. Al piano terra c’è un negozio di souvenir realizzati dai disabili di una delle associazioni delle vittime dell’agente arancio. Nguyen Thang Ninh è nato nel 1984 ed è disabile a causa delle contaminazioni. Ma anche per lui la guerra non è che un capitolo relegato al passato: “Il passato è passato”, risponde quando gli chiediamo cosa pensi degli effetti che la guerra ha avuto sulla popolazione. Ninh pensa al futuro: “Io ho potuto studiare, mi sono laureato e ora il mio sogno è incoraggiare altri giovani disabili ad avere fiducia in sé stessi, a non sentirsi sconfitti

Lavoro, non carità

“In realtà non mi sono mai sentita disabile. Almeno fino a quando non ho iniziato a cercare lavoro. Eppure se i disabili non lavorano è peggio per tutti”
(Ngoc Nhung — vicepresidente dell’associazione dei disabili di Can Tho)

Il delta del Mekong, dove uno dei maggiori fiumi dell’Indocina confluisce nel mar Cinese Meridionale, si trova nella zona più meridionale del Vietnam. Si stima che solo in questa regione vivano 1,4 milioni di disabili. Una zona rurale, punteggiata da numerosissimi villaggi dove si arriva e ci si sposta solo in barca. Can Tho, dove ci fermiamo per la notte, in realtà di rurale ha ben poco: conta circa un milione di abitanti ed è uno dei centri più grandi della regione. La città non ha particolari attrattive, ma spesso i turisti fanno tappa qui per visitare i mercati galleggianti dei dintorni. In centro si trova un mercato turistico, dove incontriamo Ngoc Nhung.

Ngoc Nhung si è trasferita a Can Tho per studiare a 15 anni. Oggi è vice-presidente dell'associazione di disabili della regione.

Nhung ha 35 anni. E’ nata a Soc Trang, nella regione del delta, e quando aveva 14 anni sua madre l’ha mandata a Can Tho perché potesse iscriversi alle superiori. Ha studiato all’estero: un anno in Thailandia e poi gli Stati Uniti. È lei a proporci l’incontro al mercato perché qui si trova uno dei negozi è gestito dall’associazione di cui fa parte. Tutti i prodotti venduti qui sono realizzati da disabili che lavorano a casa propria. L’inclusione lavorativa dei disabili che vivono nelle zone rurali, come appunto i numerosissimi villaggi del delta del Mekong, è una delle sfide più difficili. I collegamenti sono principalmente in barca, per cui anche andare a scuola per molti disabili è estremamente difficile. “Non c’è accessibilità, il livello di istruzione è basso e le famiglie sono povere”, così Nhung riassume i problemi principali. E i casi sono due: “I figli disabili sono tenuti in casa, quasi nascosti, oppure sono mandati via, a Ho Chi Minh City, a chiedere l’elemosina o a vendere biglietti della lotteria per strada (che è più o meno la stessa cosa)”

La storia personale di Nhung, pur essendo originaria di questa zona, è molto diversa: la sua famiglia è benestante e la madre l’ha sempre incoraggiata a studiare. Era il 2001 quando ha conosciuto l’Associazione delle persone con disabilità di Can Tho. Allora in realtà era un club di 20 persone e lei era estremamente scettica sulle potenzialità: “Cosa possono fare venti disabili insieme? Forse passare il tempo, chiacchierare, farsi compagnia. Questo ho pensato quando sono tornata a casa, dopo il primo incontro — ci racconta — Ricordo di aver detto a mia a madre che non avevamo certo la capacità di lavorare insieme e combinare qualcosa di buono” Oggi Nhung è vicepresidente dell’associazione, che conta 250 membri ed è l’unica associazione delle regione ufficialmente riconosciuta dal Governo. E ci tiene a sottolineare una cosa: “Sì, le cose possono cambiare. Ma prima il Governo deve cambiare atteggiamento e capire che non deve fare la carità ai disabili ma aiutarci a trovare il nostro posto nella società”

Aiutateci a fare a meno di un aiuto

“A volte ci trattano come se fossimo ‘speciali’. Non potremmo nemmeno guidare. E così ci rendono dipendenti dagli altri”
(Do Thi Huyen — Associazione dei disabili di Hanoi)

La sede dell’Associazione dei disabili di Hanoi è all’interno di un palazzo grigio, in cemento. Appartiene, ci spiegano, al Governo che gli garantisce un affitto agevolato e in parte li supporta finanziariamente. Sono una organizzazione non governativa, precisano, ma lavorano con le autorità locali. L’organizzazione riunisce 45 associazioni a livello locale e conta in tutto quasi 9mila membri.

Do Thi Huyen è nel consiglio di un’associazione locale che si chiama “Bac Tuliem” e fa parte da alcuni anni di Dp Hanoi. “Siamo spesso trattati come se fossimo speciali — ci dice — è difficile far passare un’idea di reale inclusione” A partire dai trasporti pubblici: Huyen ci spiega infatti che gli autobus sono gratuiti per i disabili. Il paradosso è che non sono nemmeno lontanamente accessibili. Così, chi come lei riesce a camminare appoggiandosi alle stampelle, preferisce andare in giro con un motorino a tre ruote. Illegalmente, perché i disabili, indipendentemente dalla limitazione fisica, non potrebbero prendere la patente. “Una volta — ci racconta sorridendo — un poliziotto mi ha fermata, dicendomi che non potevo guidare, che mi avrebbero sequestrato la moto. Io allora gli ho chiesto se secondo lui potevo davvero andare in giro con i mezzi. Non ha saputo cosa dire e mi ha lasciata andare”

Impossibile è nulla (per un disabile)

“Diversi programmatori vietnamiti hanno paura di tentare (e di fallire). E questa una disabilità ben peggiore che essere seduti su una sedia a rotelle”
(Colin Blackwell — amministratore delegato di Enable Code)

A volte sono i disabili stessi a credere di non essere in grado di farcela. A volte è l’esatto contrario. È quello che scopriamo a Ho Chi Minh, nella sede di Enable Code. Enable Code non è un’associazione, né un’impresa equo-solidale: è un’azienda di programmatori. Sono in quattro, tutti disabili.

Colin Blackwell, di Enable Code mostra a Federico una composizione di conchiglie realizzata da una cooperativa di disabili.

L’amministratore delegato si chiama Colin Blackwell, e quando gli chiediamo come sia iniziata questa esperienza ci risponde che è stato un caso: “Avevo bisogno di qualcuno che disegnasse un sito: mi sono imbattuto in un ottimo curriculum e ho commissionato il lavoro a questa persona. La consegna del lavoro è stata velocissima e il sito ben realizzato” Blackwell si è incuriosito e ha scoperto che a realizzare il lavoro era stato un gruppo di quattro programmatori che stavano finendo gli studi: “Gli ho detto che insieme lavoravano bene e che una volta laureati avrebbero dovuto avviare una start-up” Loro però non avevano le possibilità economiche per avviare un’impresa: “Ho deciso di prendermi io questo rischio — dice Blackwell — ed è così che nata Enable Code”

Quando visitiamo la sede dell’azienda ci sono tre dei quattro programmatori: Luan Nguyen, Hoai Pham e Thien Chu. Lavorano insieme da più di un anno e mezzo e si stanno preparando per andare ad incontrare un cliente. “La mia non è un’organizzazione benefica — sottolinea ancora Blackwell — e il motivo per cui li ho scelti è perché sono bravi” In cosa la disabilità li rende diversi? “Sono più disposti a rischiare, a tentare cose mai fatte prima. Certo mi auguro che la nostra esperienza possa ispirare e altri. E in questo caso non mi offenderei se qualcuno ci copiasse”