Quasi dieci anni fa ho trascorso un mese in India, a New Delhi. Stavo visitando la moschea rossa, nel quartiere vecchio. Chiacchieravo con un ragazzo conosciuto lì e per qualche motivo ci eravamo messi a parlare di disabilità. Gli raccontai che ero dispiaciuta all’idea che un mio amico (con cui parlare di viaggi era all’ordine del giorno) un posto così non lo avrebbe mai potuto visitare. Avevo torto. Quell’amico era Federico e qualche tempo fa, senza tanti preamboli, mi ha chiesto se volevo andare in Vietnam con lui.
Federico in un parco pubblico a Ho Chi Minh City
Federico Villa ha 29 anni ed è disabile: è affetto da atassia di Friedreich, una malattia neuro-degenerativa che lo ha obbligato all’uso della sedia a rotelle da quando aveva 20 anni. Atleta paralimpico di handbike, nel 2013 ha attraversato Cuba, da solo. Un viaggio cha ha condiviso per promuovere un’idea della disabilità oltre gli stereotipi e per condividere le risorse tecnologiche che permettono ad una persona in sedia a rotelle di muoversi in autonomia.
Ci mettiamo quasi una giornata intera ad arrivare in Vietnam: da Milano all’aeroporto di Ho Chi Minh City sono 18 ore di volo, con scalo a Dubai. Abbiamo prenotato un albergo solo per le prime due notti.
9/11 arrivo a HCMC
10/11 giro a HCMC
11/11 HCMC, campus RMIT campus
12/11 HCMC, Enable code+Drd
13/11 da HCMC a Can Tho — incontro con Nhung
14/11 Can Tho, mercato galleggiante
15/11 HCMC, war museum— notte: treno da HCMC a Nha Trang
16/11 Nha Trang— notte: treno da NT a Hoi An (Da Nang)
17/11 bus da Da Nang a Hoi An — visita a Reaching Out
18/11 giro a Hoi An
19/11 Hoi An —notte ad An Bang, da Binh
20/11 bus per Da Nang — treno per Hue
21/11 Hue, città proibita—treno per Vinh
22/11 Vinh — notte: treno per Hanoi
23/11 Hanoi — campus RMIT+DP Hanoi
24/11 Hanoi— intervista Thi Van
25/11 partenza
Non abbiamo nessun itinerario programmato (un po’ per scelta e un po’ per necessità), ma solo un biglietto aereo da Hanoi, la capitale, tre settimane dopo. Non sappiamo di preciso come ci sposteremo da una città all’altra: l’idea è quella di muoverci in treno, ma non abbiamo idea se sia concretamente fattibile.
Perché il Vietnam? È una scelta di Federico. Curiosità. E se glielo si domanda risponde solo: “Perché sì. Tanto mi domandereste la stessa cosa per qualunque altra destinazione”
Fatto sta che il Vietnam è uno dei paesi al mondo con il più alto tasso di disabili. E per noi è un’ottima occasione per esplorare il paese da un punto di vista diverso, “seduto”, come dice Federico.
8 milioni di abitanti. Quasi altrettanti motorini. Ci è chiaro fin da subito che la cosa più difficile sarà capire come attraversare la strada. E capirlo in fretta. La città è moderna e caotica. Il caldo è fastidioso. Usciamo dall’albergo diretti al mercato di Ben Thanh, poco lontano. Arriviamo poi fino ai giardini botanici, a quattro o cinque chilometri di distanza. E facendo un largo giro ritorniamo indietro, sempre a piedi. È la prima volta che io e Federico viaggiamo assieme. Almeno per un viaggio così lungo. Ero stata con lui una volta a Beirut, nel 2009. Partecipava alla maratona e mi aveva invitato ad andare con lui: studiavo giornalismo ed iniziavo ad appassionarmi ai paesi arabi. Siamo stati lì 5 giorni o una settimana, non ricordo: abbiamo visitato Baalbek (sito archeologico e roccaforte di Hezbollah, vicino al confine con siriano) e girato a lungo per Beirut. Ci eravamo divertiti e avevamo visto molto della città, nonostante dopo poche ore in giro fossimo esausti. Beirut è un sali-scendi continuo e i marciapiedi, dove ci sono, sono pieni di buche.
Sei anni fa Federico faceva meno fatica a spingersi sulla sedia, ma non aveva il ruotino elettrico. Ruotino che, lo capisco dal primo giorno in Vietnam, lo rende completamente indipendente: camminiamo a fianco, o (più spesso) a qualche metro di distanza. Lui sale e scende dai marciapiedi per conto suo, o con un aiuto minimo. È veloce e impara prima di me ad attraversare la strada. E se vogliamo entrare in un bar, ci servono solo pochi minuti per staccare il ruotino dalla sedia. Le persone sono curiose e non lo nascondono: osservano Federico e vedendolo girare per strada con il ruotino spesso lo indicano ridendo, stupiti. Spesso sfruttiamo la curiosità suscitata da Federico per fermarci a chiacchierare con la gente del posto. E le domande sono molto dirette: perché non cammini? Hai le gambe insensibili? Hai avuto un incidente? Hai altri parenti malati? E come funziona il ruotino? Quanto lo hai pagato? Federico risponde volentieri e mi racconta che a volte (lo farà anche ad Hong Kong) si diverte a raccontare una storia diversa.
Una sera, mentre passeggiamo in un parco, un ragazzo ci avvicina. Non è la prima volta che ci capita: gli studenti si aggirano nel parco appositamente per incontrare gli stranieri e fare pratica con l’inglese.
Hanoi, un passante ferma Federico per chiedergli informazioni sul suo ruotino elettrico.
“Che cosa ti è successo?” chiede il ragazzo a Federico. “Sono nato così” “Mi dispiace”, dice lui. “Non essere dispiaciuto. Io sono fortunato, lo vedi. Posso viaggiare, faccio quello che mi piace” Il ragazzo accenna un sorriso, perplesso. Forse ha capito, forse no. E dopo poco se ne va non troppo convinto. Viaggiare con qualcuno significa anche adattarsi ai ritmi reciproci. E Federico al mattino è lento. Scendere dal letto, lavarsi i denti, vestirsi, fare lo zaino, mettersi le scarpe, bere il caffè: sono tutte operazioni che, con la sua mancanza di coordinazione, richiedono sforzi e tempo superiori alla media. Prima di partire, un po’ scherzando e un po’ seriamente mi ha chiesto più volte se avevo capito che stavo partendo con un disabile. E io, altrettante volte, l'ho ringraziato per avermelo fatto presente, visto che fino a quel momento non me n'ero accorta. D’altra parte Federico è un ottimo compagno di viaggio: è disposto al compromesso e sa quando è il caso di bersi una birra in silenzio. E la sua unica ‘richiesta’ rispetto, ad esempio, agli alberghi, è che la sedia passi dalla porta del bagno e che non ci siano due piani di scale tra la reception e la stanza. Il resto è improvvisazione e tentativi.
Dopo quattro giorni a Ho Chi Minh City decidiamo di visitare il delta del Mekong. Raggiungiamo in taxi una prima stazione degli autobus: da lì un minibus ci porta alla stazione principale, in periferia. Carichiamo sedia e ruotino nel bagagliaio, mentre un'autista si carica Federico in spalla per farlo salire sull'autobus. Scherziamo sul fatto che lo trattino né più né meno di un pacco: dove non c’è accessibilità se la inventano, senza troppi pietismi né riguardi. Quando arriviamo a Can Tho, la più grande città del delta, sono le tre di pomeriggio: cinque ore per fare poco di 150 chilometri. Il piazzale della stazione è assolato e bollente e noi ci sentiamo immediatamente dei marziani quando un gruppo di autisti ci circonda, scambiandosi commenti incuriositi a proposito di Federico e del ruotino. Dalla stazione di Can Tho raggiungiamo un albergo segnalato dal sito come accessibile. Ma non è così: non ci sono stanze al piano e non c'è l'ascensore. Fortunatamente, comunque, il proprietario dell'albergo gestisce anche una seconda struttura poco lontano, dove l'ascensore c'è.
Can Tho, il mercato galleggiante sul Mekong.
Prima di incontrare la vicepresidente di un'associazione locale di disabili, abbiamo un po’ di tempo libero e andiamo ad informarci per prenotare una visita in barca ai mercati galleggianti. Alla sera, mentre aspetto che Federico si faccia la doccia, scendo a fare due passi. Rientro dopo mezz’ora circa e gli dico che sono contenta di non essere più in mezzo al caos di Ho Chi Minh City. Lui mi guarda di traverso e dice solo: “Io veramente no. Non vedo l'ora di andarmene” Mentre faceva la doccia (e va detto che la pulizia del bagno era discutibile) Federico è scivolato, cadendo su un tubo di scarico che sporgeva dal pavimento e si è fatto un taglio di una ventina di centimetri sulla coscia. Quando è caduto, l’acqua era aperta e bollente. Federico ha problemi di coordinazione, quindi ha impiegato diversi minuti prima di riuscire a chiuderla. E a quel punto si era già ustionato. Mi limito, quando me lo racconta, a cercare di convincerlo che la sua ostinazione a lavarsi i denti con l’acqua minerale a questo punto è una precauzione superflua.
Da Can Tho torniamo a Ho Chi Minh City per ripartire in treno verso nord, lungo la costa. Acquistare il biglietto del treno è inaspettatamente complicato: dopo numerosi tentativi a vuoto sul sito delle ferrovie, capiamo che l’unica soluzione, o almeno la più veloce, è chiedere ad un’agenzia e pagare una commissione di tre dollari per ogni biglietto (una cifra che per alcune tratte supera il prezzo del biglietto stesso). Prenotiamo due tratte: Ho Chi Minh City — Nha Trang e Nha Trang — Da Nang (rispettivamente 6 e 7 ore). Il problema sostanzialmente è il bagno. E il rischio nel caso di Federico è abbastanza serio: se la sua vescica si riempie troppo, non è più in grado di andare in bagno. Il che significa pronto soccorso e catetere. Il viaggio fino a Nha Trang è più tranquillo del previsto. L’unica sorpresa è all’arrivo: mentre il vagone, quando siamo saliti a Ho Chi Minh City, era a livello della banchina, alla stazione di arrivo c’è circa un metro di dislivello. Con l'aiuto di altre due persone, comunque, ce la caviamo facilmente. Nha Trang è una località di mare frequentata da un numero sorprendente di turisti russi. Arriviamo alle le 5 e mezza di mattina e la città si sta svegliando. In poco più di mezz’ora, raggiungiamo a piedi il lungomare, già frequentatissimo.
Da Nang, in attesa di salire sul treno per Hue.
Alla sera torniamo in stazione e prendiamo il treno per Da Nang. Le cose però non vanno altrettanto bene, a cominciare dalla foga, a tratti incomprensibile, dell’addetto del treno. Prima di capire che non c’è verso di far passare la sedia tra i sedili, insiste nello spingerla, schiacciando a me un piede e a Federico entrambe le mani tra i sedili. A qualche ora dall’arrivo Federico è inquieto. Deve andare in bagno e in treno non c’è modo. Insiste per convincermi a restare sul treno: “Io scendo — mi dice — tu resta qua. In qualche modo ti raggiungo stasera ad Hoi An” Provo a spiegargli che per me non è un problema scendere a metà strada e perdere una giornata, sapevo già che sarebbe potuto succedere. Però no, non ne vuole sapere e mi assicura che non è una questione di orgoglio. Allora gli chiedo solo di farmi sapere, entro sera, dove ci rivedremo. Intanto è passata quasi un’ora e Federico è ancora sul treno. Arriviamo a Da Nang insieme. Scendiamo e, risolta la questione bagno, ci avviamo verso Hoi An.
Da Da Nang, si arriva a Hoi An in taxi o in autobus. Scegliamo l'autobus. Come altrove, è consuetudine che agli stranieri, ai turisti, sia chiesto di pagare di più. In questo caso, però, per il biglietto dell’autobus ci chiedono praticamente il doppio. Contrattiamo fino all'arrivo ad Hoi An, contando che in qualche modo risolveremo la questione e che cederanno sul prezzo, almeno in parte. Ma la situazione prende una piega spiacevole: in stazione, i passeggeri scendono dall’autobus. Scarico gli zaini, ma mi fanno capire che no, la sedia resta a bordo finché non paghiamo e che no, non hanno intenzione di aiutare Federico a scendere. Intanto all’autista si sono uniti altri due colleghi. Federico mi guarda, dal suo sedile, e mi fa capire che è meglio pagare quanto chiedono e andarcene. Mentre ci avviamo a piedi verso il centro di Hoi An, Federico mi racconta di quando è stato a Cuba da solo, due anni prima.
Il tempo ad Hoi An scorre lento. È una città turistica e tranquilla. Gli inconvenienti tecnici sono però un fattore da mettere in conto, considerati gli ausili che Federico usa: succede una sera, quando rientriamo in albergo.
Hoi An, Ronaldo, il figlio di Tauny e Gio, gioca con il ruotino di Federico.
Il ruotino elettrico si fissa alla sedia con due barre di metallo, fissate da due manopole a ghiera. Per qualche motivo una delle due gira a vuoto, quindi è impossibile staccare il ruotino dalla sedia. E questo rende problematico per Federico scendere e salire dalla sedia. Rimandiamo la soluzione al giorno successivo, dopo il caffè. Quasi per caso entriamo in un cortile e conosciamo Tauny e sua moglie Gio. Da tre generazioni, fabbricano artigianalmente le lanterne cinesi tradizionali che a Hoi An si trovano un po' ovunque. Trascorriamo un paio d’ore in loro compagnia. Federico gli spiega il problema con il ruotino e Gio a martellate sfila la barra metallica incastrata e stacca il ruotino. Una delle ghiere non tiene più, ma l’altra dovrebbe bastare. Ci fermiamo ad Hoi An un giorno in più del previsto: Le Nguyen Binh, il fondatore di un’associazione che abbiamo intervistato, ci ha invitato a trascorrere una sera da lui, come suoi ospiti. Binh vive con la moglie e i due figli a qualche chilometro da Hoi An, sul mare. È in sedia a rotelle e ama nuotare. Lo fa tutte le mattine e si è fatto costruire una sedia di plastica con cui può attraversare la spiaggia dietro casa sua ed entrare facilmente in acqua. Chiede a Federico se vuole provarla. Così andiamo in spiaggia ed è uno dei momenti in cui lo vedo più felice.
No. Un disabile non può fare tutto. Non può sempre arrivare ovunque. Diverse persone ci avevano sconsigliato di visitare Huè, l’antica capitale del Vietnam, dove si trova la città proibita, un complesso di circa un chilometro per lato dove fino al 1945 viveva l’imperatore con la sua famiglia. Una persona in sedia a rotelle — ci avevano spiegato — non vedrebbe praticamente nulla. All’ultimo però la inseriamo comunque nell’itinerario, un po’ per curiosità e un po’ perché ci fa comodo una tappa intermedia. Cerchiamo di capire la geografia del posto dalla guida, ma senza successo. All’ingresso della cittadella a Federico non fanno nemmeno pagare il biglietto. Federico lascia il ruotino in uno dei negozi di souvenir vicino all’ingresso e decidiamo di tentare: tanto si può sempre tornare indietro. Ci sono in effetti degli scalini piuttosto alti, circa una trentina di centimetri, e il terreno è sconnesso. Ma lui è leggero e la sedia anche. A volte ci aiutano, a volte nemmeno serve. Alla fine stiamo in giro tre ore, rimpiangendo di non avere una giornata in più e domandandoci che cosa ci fosse di così ‘inaccessibile’.
Carne di cane (in vendita al mercato) e il tempo che non passa. Vinh è praticamente l’unica meta non turistica nel nostro itinerario. Noi ci finiamo quasi per caso, principalmente perché ci serve una tappa intermedia per spezzare il viaggio da Huè ad Hanoi. Ci arriviamo alla sera tardi, per ripartire il giorno dopo più o meno alla stessa ora. Una città ribelle, distrutta tre volte: prima i francesi, poi i vietminh e alla fine gli americani. È stata ricostruita, si legge nella guida, grazie ai soldi della Germania dell’Est. Ecco spiegata l’architettura in stile sovietico. L’unico museo della città, il museo dei Soviet, è chiuso. Non c’è molto altro da fare, a parte camminare. E parlare. Federico ed io ci siamo conosciuti a scuola, al liceo. All’epoca ero abbastanza risentita per quello che mi sembrava un ingiusto doppio standard nei suoi confronti: spesso entrava in ritardo e a volte passava metà delle ore al bar insieme al suo insegnante di sostegno, che peraltro ogni tanto gli suggeriva le risposte durante le versioni di latino. Eppure lui non ha nessuna difficoltà di apprendimento, ma solo limitazioni fisiche. Racconto a Federico che a me sembrava che questi favoritismi lo rendessero più ‘diverso’ di quanto in realtà non fosse.
Che cosa significa “pari opportunità”?
Capita che le persone, per eccesso di zelo, diventino iper-protettive e si preoccupino (forse eccessivamente) che Federico abbia bisogno di aiuto. Intervengono senza rendersi conto che a volte rasentano l’invadenza. La comunicazione in inglese non è sempre agevole: a parole è difficile spiegare che riusciamo a cavarcela per conto nostro e che Federico in bagno sa arrangiarsi da solo. Decidiamo di visitare la baia di Ha Long, con un tour in giornata da Hanoi: è l’unica scelta possibile con il poco tempo che abbiamo a disposizione. Un pulmino turistico passa a prenderci in albergo e in tre ore abbondanti siamo alla baia. Da quando siamo saliti sull’autobus la guida del tour, un ragazzo sui trent’anni, peraltro piuttosto gentile, è ansioso per la presenza di un disabile. Ci tiene a rassicurarmi decine di volte che ci aiuterà il più possibile, ma anche a sottolineare che tante cose Federico non potrà farle (ad esempio il giro in canoa o la visita alla grotta prevista nel tour). Quando saliamo in barca, iniziano a servire il pranzo. Federico deve andare in bagno, ma prevedibilmente la sedia non passa dalla porta. Smontiamo le ruote della sedia e la rimontiamo dentro il bagno, così con l'aiuto della guida Federico riesce a entrarci. Io intanto inizio a mangiare. O almeno ci provo, perché la guida mi domanda a intervalli di due minuti se sono sicura che vada tutto bene e se per caso io non voglia controllare che il mio amico non abbia problemi. Cerco inutilmente di fargli capire che non c'è motivo di preoccuparsi e che sono trent’anni che in bagno ci va per conto suo, che non ha bisogno di me e che quando dovrà uscire chiamerà. Anche perché non siamo nemmeno a dieci metri di distanza. Quando Federico esce dal bagno gli racconto le preoccupazioni della guida e il mio leggero fastidio nei suoi confronti. Mi guarda e mi dice solo: “Benvenuta nella mia vita quotidiana” La strategia di Federico, a questo punto, è quella di chiedere aiuto alla guida per qualunque cosa gli costi fatica, ma che potrebbe fare benissimo per conto suo (passargli la giacca, spingerlo attraverso il corridoio, raccogliergli il telefono). “Peggio per lui — mi risponde quando gli faccio notare che così lo invita all’assistenzialismo — io devo sopravvivere e se lui è felice di fare fatica al posto mio facesse pure. Ricordi? Sono un furbo”
Ha Long Bay, sulla barca a remi che permette di visitare le calette.
Nel complesso, è una giornata strana. La trascorriamo insieme, ma separati. Federico praticamente non scende mai dalla barca e, vista anche l’apprensione della guida, rinuncia a chiedere di farsi caricare sulla piccola barca a remi che permette di avventurarsi all’interno delle calette. Ci vado io e gli mostro le foto. Convinta, in ogni caso, che con più tempo a disposizione sarebbe potuto venire anche lui. In realtà sono stata io ad insistere per fermarci qui solo una giornata, un po’ per una questione di tempo — visto che le tre settimane sono quasi trascorse e ad Hanoi dobbiamo incontrare diverse persone — e un po’ perché sapevo che la logistica in questo caso sarebbe stata più complicata. Mentre torniamo ad Hanoi chiedo a Federico se si sia annoiato, ma ne cavo solo una mezza risposta. Ne riparliamo tempo dopo, quando ci rivediamo a Milano. “Sono contento — dice — perché per me in quel caso era già un traguardo essere arrivato fino a lì. Sì, lo so che avrei potuto insistere, che sarei potuto salire sulla barca a remi, ma mi fa piacere che tu sia andata comunque, anche per conto tuo. Mi fa piacere che tu me lo abbia chiesto, ma non abbia insistito per restare, altrimenti credo che mi sarei sentito un peso. E poi — aggiunge — lo sai che nuoto come un sasso che va a fondo. E avevo appena letto sulla guida che se cadi in acqua i locali non possono salvarti, altrimenti per tradizione sarebbero costretti a sacrificare uno di loro”
Hanoi è relativamente costosa e malinconica. Ci arriviamo dopo una notte insonne trascorsa in treno. E, forse per la prima volta, trovare un albergo è snervante. Ne avevamo prenotato uno che stando al sito di prenotazione era accessibile, ma quando ci presentiamo alla reception ci indicano una stanza al secondo piano. Senza ascensore. Guardano me, guardano Federico e attendono. Come aspettandosi che Federico si alzi in piedi e salga le scale. Annulliamo la prenotazione e iniziamo a girare di persona gli alberghi nei dintorni. Dopo una decina di tentativi ne troviamo uno: Federico deve fare un paio di manovre per passare tra la porta e il letto, ma ci accontentiamo. Mi domando (e gli domando) come faccia, anche quando è stanco, a non irritarsi per questi contrattempi. Mi risponde che le cose che lo fanno davvero innervosire sono altre, come vestirsi o graffiarsi le caviglie. “Ultimamente vado in bici meno spesso— dice — . È per il tempo che perdo a vestirmi e svestirmi. La tuta per andare in bici è stretta. Devo infilarla stando incastrato tra il muro e l’armadio, per non cadere. Ci impiego una vita. E poi quando torno, mi devo svestire, fare la doccia e rivestirmi un’altra volta. Per andare in bici un’ora, ne perdo più di due” Lo racconta con precisione, descrivendo i movimenti, le cadute e gli stratagemmi per evitarle. Senza tacere la frustrazione di quando gli altri pensano che la sua sia solo pigrizia. E poi cambia discorso.
Vista sul lago ovest, Ho Tay, ad Hanoi.
A volte, anche con alcune persone che incontriamo per le interviste, succede che domandino a me cose che riguardano Federico. Un po' perché non sente (è uno degli effetti della sua malattia) e un po' perché disabile. Ma per quanto mi riguarda io non posso parlare per lui e quindi devono essere gli altri a fare uno piccolo sforzo in più per non escluderlo dalla conversazione. Ne parliamo più volte, della sordità, un problema che per Federico è una novità degli ultimi tempi. Di nuovo la sua risposta è piuttosto disarmante. “Certo che mi isolo, che mi distraggo — dice — . Per me le cene in compagnia sono una noia: se ci sono più di due persone che parlano contemporaneamente sento solo rumore. Ma non posso nemmeno sempre litigare per farmi ripetere le cose o far capire agli altri che è offensivo non rivolgersi direttamente a me quando vogliono chiedermi qualcosa. Però ho voglia di capire come risolvere i problemi, questo sì. Ad esempio è ora che io impari a leggere il labiale. Ho sempre rimandato: c’è voluto il Vietnam per capire che è ora di affrontare questo problema” Ad Hanoi le nostre strade si dividono. Io torno a Roma, Federico prosegue. Visiterà, da solo, Hong Kong, Manila e Singapore. “Keep rolling”